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Dove va l'Unione Europea?

 


Bilancio e prospettive di un'unione imperialistica

14 Maggio 2024

Né europeismo liberale né sovranismo reazionario. Per un'Europa socialista, unica reale alternativa

L'Unione Europea è nata da una concertazione di stati imperialisti del vecchio continente sospinta dalla caduta del Muro di Berlino. Il crollo dell'URSS e del Patto di Varsavia spinse la riunificazione capitalistica della Germania. L'imperialismo francese diede via libera a tale riunificazione in cambio dell'integrazione dell'imperialismo tedesco in un nuovo patto continentale. L'Unione Europea è nata attorno al patto franco-tedesco: un faticoso punto di equilibrio tra la forza militare della Francia e la forza economica della Germania. Il suo progressivo allargamento non ha rimpiazzato questo baricentro originario, ma ne ha minato le basi ed aggravato le contraddizioni. L'attuale scenario mondiale approfondisce la crisi della UE da ogni versante.


LE AMBIZIONI ORIGINARIE DELL'UNIONE

Attraverso la loro unione, formalizzata dai Trattati di Maastricht (1992-1993), gli stati imperialisti del vecchio continente si candidarono a massimizzare a proprio vantaggio la nuova spartizione del mercato mondiale e delle zone di influenza seguita al crollo dell'URSS. La dichiarazione di Lisbona dell'anno 2000 ancora progettava la conquista di una egemonia economica della UE a livello globale. Tale ambizione si è concretizzata nella formazione della moneta comune (2002), oggi estesa a 20 paesi, e seconda valuta di riserva al mondo dopo il dollaro; nell'ampliamento del mercato continentale interno con la progressiva liberalizzazione della circolazione dei capitali e delle merci; nell'allargamento progressivo della UE, con i salti compiuti nel 1995 (attraverso l'ingresso di Austria, Finlandia, Svezia), poi nel 2004 (con l'ingresso di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Ungheria), poi ancora nel 2005 (con l'adesione di Romania e Bulgaria), infine nel 2013 (con l'ingresso della Croazia), sino agli attuali 27 stati membri. La disgregazione della federazione jugoslava, e le guerre che l'accompagnarono dal 1991 al 1999, sono state di fatto parte costituente dell'Unione Europea e della sua proiezione.


L'ATTACCO ALLE CONQUISTE SOCIALI DEL PROLETARIATO EUROPEO

Il risvolto sociale dell'unione imperialista è stato la gestione concordata delle politiche antioperaie sul versante interno: precarizzazione del lavoro, smantellamento dei meccanismi di indicizzazione dei salari, privatizzazione dei servizi, attacco alle prestazioni del welfare. La riduzione delle tasse su patrimoni e profitti, nel quadro della globalizzazione capitalistica mondiale, ha accompagnato la crescita dell'indebitamento pubblico in direzione del capitale finanziario. Il pagamento del debito pubblico e dei relativi interessi ha trascinato la compressione delle spese sociali da parte dei diversi stati nazionali nel campo della sanità, dell'istruzione, della previdenza pubblica, delle protezioni sociali. I patti europei sulle politiche di bilancio – dal Trattato di Maastricht al Fiscal Compact (2012) sino al nuovo Patto di stabilità (2023) – hanno incardinato la gestione concordata di queste politiche tra i diversi stati nazionali, nel difficile equilibrio dei loro diversi interessi.

Tutti i governi borghesi, di ogni colore politico, a partire dai governi dei paesi imperialisti, hanno gestito le politiche antioperaie. Governi di centrosinistra o socialdemocratici hanno fatto in più occasioni da apripista (Blair in Gran Bretagna nel decennio 1997-2007, Schroeder in Germania tra il 1998 e il 2005, la lunga legislatura di centrosinistra in Italia dal 1996 al 2001).

La classe operaia europea ha pagato pesantemente i costi sociali di queste politiche. Le sue conquiste sociali sono finite ovunque sotto attacco. Le disuguaglianze dei livelli di reddito e di occupazione si sono complessivamente accresciute tra i diversi paesi e al loro interno. Aree territoriali tradizionalmente sottosviluppate hanno confermato o aggravato la propria marginalità (Germania Est, Meridione d'Italia, Andalusia, Bretagna) attraverso ulteriori processi di deindustrializzazione. Alcuni paesi periferici come la Grecia hanno subito profonde destrutturazioni economiche e sociali per pagare il debito estero alle banche tedesche, francesi, italiane. Il grosso dell'Europa orientale, progressivamente integrata nella UE, si è differenziata tra un Nord ed Ovest più sviluppati (Polonia, Estonia, Slovenia e paesi baltici) ed un Est e Sud ridotti a riserva di manodopera a basso salario.

In definitiva, il vero “successo” dell'Unione Europea si è consumato contro i salariati e la popolazione povera del continente.


LA CRISI DELLE AMBIZIONI EGEMONICHE DELLA UE

Si tratta in realtà dell'unico “successo” dell'Unione Europea. Le ambizioni egemoniche degli imperialismi europei si sono infatti scontrate assai presto con uno scenario internazionale avverso.

Negli anni '90 e nei primi anni 2000 il forte rilancio del militarismo imperialistico degli USA in chiave unipolare, anche attraverso il controllo della NATO, ha costretto gli imperialismi europei o a un allineamento subalterno (come in Jugoslavia e in Afghanistan) o a una differenziazione passiva (come quella di Francia e Germania sull'invasione dell'Iraq); mentre l'asse tra imperialismo USA e imperialismo britannico acuiva le contraddizioni interne alla UE e congelava il suo sviluppo politico.

La grande crisi capitalistica del 2008, per i suoi effetti diretti e indiretti, ha assestato un ulteriore colpo all'UE. La doppia recessione continentale (2008-2011) e la crisi dei debiti sovrani ha ampliato il contrasto di interessi tra la Germania e gli imperialismi mediterranei (Francia, Italia, Spagna) attorno alle politiche di bilancio. Ma soprattutto il salto imperialistico della potenza cinese dopo il 2008 e la nuova centralità planetaria dello scontro interimperialista tra USA e Cina ha progressivamente marginalizzato il peso della UE. La maturazione imperialistica della Russia di Putin e la sua politica di potenza, culminata nell'invasione dell'Ucraina (febbraio 2022), hanno infine approfondito la sua crisi.

L'Unione Europea è da tempo imprigionata in una impasse, nel lungo limbo tra mancato sviluppo federale e impossibile dissoluzione. L'uscita della Gran Bretagna dall'Unione non ha sbloccato tale impasse. Il nuovo contesto mondiale oggi l'aggrava.


LA SFIDA DEL NUOVO CONTESTO MONDIALE

Il combinarsi della pressione imperialistica russa, della crisi dell'egemonia mondiale americana, della competizione globale con USA e Cina (e tra USA e Cina), pone gli imperialismi europei di fronte a nuove sfide di portata storica: la necessità di sviluppare una propria forza militare, integrata nella NATO, ma capace di una nuova presenza e iniziativa sui diversi scacchieri strategici; la necessità di un salto degli investimenti nella transizione ecologica e digitale. Sono necessità inaggirabili per far fronte agli imperialismi concorrenti, alla forza dei loro regimi statali, e alla nuova imprevedibilità dello scenario mondiale (elezioni americane incluse). Sono necessità che richiedono unità di comando e grandi disponibilità di risorse: esattamente i requisiti di cui la UE non dispone.

Il bilancio economico comunitario è irrilevante rispetto al bilancio dei poli imperialistici concorrenti. La UE non dispone di una leva fiscale continentale, e per di più è attraversata da una concorrenza fiscale interna. L'unità di comando (Commissione Europea e Consiglio Europeo) è ipotecata dalla incerta mediazione intergovernativa, dentro un ibrido istituzionale irrisolto che sta a metà strada tra confederazione e federazione, esposto a ricorrenti poteri di veto. La BCE non gode di una copertura federale, ed è essa stessa luogo di contesa tra pressioni nazionali contrastanti (ieri nella gestione dei debiti sovrani, oggi in quella dei tassi d'interesse).


I PROGETTI TRANSNAZIONALI DI UN EUROPEISMO IMPERIALISTA

Per questo un settore transnazionale della grande borghesia europea ed il suo personale politico di riferimento (Mario Draghi) premono per una forte accelerazione della UE in direzione dell'avanzata del suo processo di integrazione. È il tentativo di rilanciare un progetto federale europeo. Da qui tre proposte fra loro connesse:

1) Rinnovare e stabilizzare il ricorso all'indebitamento continentale (eurobond) – dopo quello eccezionalmente varato di fronte all'emergenza Covid – per finanziare gli enormi investimenti necessari in campo militare, ecologico, digitale.
2) Puntare a una maggiore autonomia continentale dalle importazioni cinesi nel campo delle tecnologie verdi, e dalle importazioni USA in fatto di armamenti (oggi il 78% delle importazioni militari UE), sviluppando in entrambi settori una forte produzione europea.
3) Sviluppare un “mercato unico dei capitali” che possa mobilitare a questo fine il risparmio privato nella UE, integrando il ricorso ai bilanci statali (ed eventualmente agli eurobond).


LE PROFONDE CONTRADDIZIONI TRA GLI IMPERIALISMI NAZIONALI NELLA UE

Ma la stessa emergenza mondiale che sospinge l'integrazione europea approfondisce le contraddizioni che la minano.

Ogni imperialismo nazionale europeo coltiva il proprio autonomo interesse.
L'imperialismo tedesco, destabilizzato dalla crisi congiunta dei suoi tradizionali punti di forza (energia a basso prezzo di provenienza russa, proiezione sul mercato cinese, liberalizzazione degli scambi commerciali), si oppone a ogni nuovo indebitamento europeo facendo leva sulla superiorità del proprio bilancio statale: da qui lo stanziamento di 100 miliardi nell'investimento militare della Germania nel tentativo di rilancio del suo ruolo internazionale. Un investimento militare che destabilizza il tradizionale equilibrio con la Francia.
L'imperialismo francese, colpito dal crollo della propria area di influenza in Africa, chiede il ricorso all'indebitamento continentale in funzione degli interessi della propria industria bellica e della propria egemonia militare in Europa (quale unica potenza nucleare della UE), in aperta concorrenza con la Germania. Le posture belliciste di Macron sul fronte ucraino sono il rivestimento retorico di questa politica.
L'imperialismo italiano fa fronte comune con la Francia nel chiedere il ricorso al debito europeo, a fronte delle proprie difficoltà di bilancio, ma gioca di sponda con l'imperialismo USA per ottenere un proprio riconoscimento di ruolo in Medio Oriente e in Africa ai danni del declinante imperialismo francese. Il cosiddetto piano Mattei per l'Africa si muove in questa direzione.
Parallelamente, il gruppo dei paesi dell'Europa dell'est si divarica di fronte all'imperialismo russo tra una Polonia che stanzia il 4% del PIL in armamenti in chiave antirussa e una Ungheria che assume di fatto la Federazione Russa come interlocutore privilegiato.

Tutti gli imperialismi europei accrescono i propri bilanci militari, partecipando alla corsa mondiale agli armamenti. Ma la leva dei bilanci statali nazionali, molto differenziati per consistenza e livelli di indebitamento, agisce come fattore di ulteriore divaricazione nella UE. La “Difesa europea” resta la somma delle Difese nazionali, con 17 diversi sistemi d'arma e una spietata concorrenza interna tra stati imperialisti e i loro complessi industrial-militari.

La stessa dinamica opera nel campo della transizione ecologica e digitale dell'industria. La flessibilità concessa agli aiuti di stato da parte della Commissione Europea durante la crisi energetica ha sottolineato e ampliato le diverse capacità di bilancio tra gli imperialismi europei. La sola Germania nel 2022 ha coperto il 76% di tutto il valore degli aiuti di stato concessi in Europa, e destina ben 55 miliardi annui alla sola innovazione dell'auto elettrica. Per di più il nuovo Patto di stabilità e crescita, su pressione tedesca, ha preservato in forma diversa i vecchi vincoli restrittivi delle politiche nazionali di bilancio, disciplinando la riduzione del debito pubblico e i tetti della spesa in deficit: l'imperialismo tedesco non intende farsi carico delle esigenze di cassa e di investimento degli imperialismi concorrenti della UE, mentre l'esiguo bilancio europeo continua a dipendere dai contributi versati dagli stati membri.


IL DECLINO EUROPEO NELLA MORSA TRA USA E CINA

Si amplia il divario non solo tra gli imperialismi nazionali nella UE, ma tra l'insieme della UE e le potenze concorrenti di USA e Cina, dotate di una capacità di spesa e di indebitamento pubblico enormemente superiore, e di una grande riserva interna di materie prime a basso costo.
L'industria europea è così esposta al rischio di nuove fughe degli investimenti in direzione degli USA, mentre l'espandersi del protezionismo, connesso allo scontro fra poli imperialisti, colpisce la sua forza tradizionale di primo polo esportatore. La risultante d'insieme è l'approfondirsi della crisi europea. La crisi congiunta della Germania e del blocco franco-tedesco ne è effetto e concausa.

Anche i progetti di allargamento dell'unione si scontrano con contraddizioni paralizzanti. Da un lato la pressione dell'imperialismo russo suggerisce la ricerca dell'allargamento dell'unione in direzione dell'Ucraina e di paesi balcanici già da tempo candidati e in attesa (Serbia, Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord). Dall'altro il criterio dell'unanimità decisionale ostacola il nuovo allargamento. E non solo.

I Balcani sono area di influenza contesa tra imperialismo tedesco e imperialismo italiano. L'imperialismo francese, marginale nell'area, ostacola l'integrazione per contrastare gli imperialismi concorrenti. Mentre dall'esterno l'imperialismo russo intende preservare le proprie posizioni in Serbia e in Bosnia Erzegovina, facendo leva sulle questioni nazionali irrisolte.

Quanto all'Ucraina, la sua integrazione nella UE si confronta con l'enormità dei costi della ricostruzione, l'impatto sulla redistribuzione continentale dei sussidi agricoli, le rischiose implicazioni militari nel confronto con l'imperialismo russo. La corsa concorrenziale tra gli imperialismi nazionali europei ad accordi bilaterali con l'Ucraina copre non solo il divario di interessi nella futura spartizione della sua ricostruzione, ma la paralisi di prospettiva della UE. Le differenziazioni interne sul posizionamento in Medio Oriente completano il quadro.


UNIONE EUROPEA «IMPOSSIBILE E REAZIONARIA» (LENIN).
ECONOMIA DI GUERRA E GUERRA AI MIGRANTI


Nel 1915 Lenin dichiarava che, su basi capitaliste, l'unificazione europea (“Stati Uniti d'Europa”) è o impossibile o reazionaria. L'esperienza degli ultimi trent'anni ha confermato questa verità su entrambi i lati.
Una compiuta unione federale europea è impedita dagli interessi divergenti di stati imperialisti storicamente consolidati da lungo tempo. Al tempo stesso, ogni passo avanti dell'UE sul terreno dell'integrazione capitalistica si è tradotto in un attacco alla classe lavoratrice, ai settori oppressi, alle loro domande più elementari.
In nessun modo l'unione tra imperialismi europei ha assunto o può assumere un carattere progressivo. L'idea di una “Europa sociale, democratica, di pace”, dentro il quadro capitalista, si è rivelata una utopia, contraddetta dai fatti.

Tanto più oggi l'intera evoluzione dello scenario mondiale si abbatte sul proletariato europeo e sulle masse oppresse. Il salto degli investimenti militari in tutti i paesi europei, il pubblico richiamo all'economia di guerra, i piani di ripresa della leva militare obbligatoria in alcuni paesi, le missioni militari in Medio Oriente (Mar Rosso) al fianco dello stato sionista, trascinano nel loro insieme nuovi tagli ai servizi sociali. La crisi energetica e i venti protezionisti si traducono in crescita dei prezzi e in un nuovo colpo ai salari. Il pagamento del debito pubblico, statale e/o europeo, unito alla crisi dei bilanci statali, mina gli investimenti ambientali nella riconversione energetica, già ostaggio della concorrenza capitalistica internazionale, in particolare cinese (auto elettrica, pannelli solari). La militarizzazione crescente delle opinioni pubbliche colpisce i diritti democratici, a partire dalla criminalizzazione della mobilitazione antisionista, in particolare in Germania e Francia.

Le migrazioni connesse alle guerre divengono occasione di nuove campagne xenofobe di respingimenti, di rimpatri forzati, di detenzioni amministrative, fuori da ogni parvenza di diritto. Mentre la corsa (anche) europea alle nuove materie prime dell'Africa, innanzitutto litio e cobalto, e alla sua manodopera a basso costo, si combina col contrasto dei flussi migratori alla partenza attraverso accordi criminali coi regimi africani (Niger, Ghana) e nord-africani (Libia, Tunisia, Egitto) interessati. La “solidarietà europea” che fallisce sulla redistribuzione interna dei migranti si realizza sul loro respingimento alla frontiera, e sullo spostamento a sud della linea stessa di respingimento nel cuore dell'Africa subsahariana.


LA POSTA IN GIOCO NELLE ELEZIONI EUROPEE DEL 9 GIUGNO

Tutti i partiti dominanti del vecchio continente gestiscono, in varie forme, questi indirizzi politici di fondo, su scala nazionale ed europea, con ruoli di governo o di “opposizione”.

Le imminenti elezioni europee hanno unicamente come posta in gioco gli incerti equilibri di gestione delle politiche borghesi nelle istituzioni della UE.
Il PPE, il PSE, i liberali amministrano, con la loro maggioranza, l'attuale Commissione Europea. La destra dei conservatori europei (ECR) si candida a rimpiazzare la socialdemocrazia nell'alleanza col PPE, ma alcuni suoi settori si riservano la possibilità di negoziare un proprio ingresso nell'attuale maggioranza a guida Von Der Leyen dopo il voto europeo. È il caso di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. L'estrema destra sovranista (Identità e Democrazia) rivendica la propria partecipazione a un governo europeo di centrodestra in contrapposizione al PSE, ma si scontra con l'attuale indisponibilità del PPE verso l'estrema destra tedesca e francese.

In ogni caso, gli interessi dei propri imperialismi nazionali, e i calcoli di politica interna, dominano la politica europea. La lotta politica tra partiti borghesi in Europa rimane prevalentemente nazionale. Resta il fatto che a differenza del precedente decennio nessuna forza politica rilevante in Europa, neppure il grosso dell'estrema destra sovranista, rivendica oggi l'uscita dalla UE e/o dall'euro. È un riflesso indiretto dell'emergenza politica internazionale. Prima della pandemia, poi della guerra.


LA CRISI DI CONSENSO DELLE POLITICHE DOMINANTI

Al tempo stesso il corso delle politiche dominanti registra una diffusa crisi di consenso. Con l'eccezione dei paesi baltici e degli stati esposti alla frontiera russa (Polonia), la campagna allarmistica dei circoli dominanti a favore dell'economia di guerra, finalizzata a giustificare il salto di spese militari, non riesce a egemonizzare l'opinione pubblica, ed anzi suscita diffidenza o rigetto. Il pacifismo (talvolta antiucraino) da un lato, la solidarietà col popolo palestinese dall'altro – entrambi prevalenti nel sentimento pubblico – misurano, con opposta valenza, la crisi di consenso della politica estera nei paesi imperialisti dell'UE.

Non va diversamente per le politiche ambientali: il rinvio o l'autoriduzione degli impegni annunciati col Green Deal, sotto la pressione delle organizzazioni padronali dell'industria e dell'agrobusiness; il carico delle misure annunciate di riconversione produttiva ed energetica sulle spalle dei salariati e dei consumatori; i criteri di distribuzione dei sussidi agricoli a vantaggio delle grandi aziende, hanno sommato su opposti versanti resistenze diffuse o opposizioni aperte di ampi settori popolari, nei centri urbani e nelle campagne.

La profonda crisi dei sistemi sanitari e previdenziali, aggravata dalla crisi demografica e dal salto degli investimenti militari, e la pressione inflazionistica sui salari a fronte dell'abnorme crescita dei profitti, nutrono il malcontento di vasti settori di massa.


L'INSTABILITÀ POLITICA IN EUROPA

L'instabilità degli equilibri politici in Europa è il riflesso della crisi di consenso.
Con la parziale eccezione italiana, tutti i principali paesi imperialisti del vecchio continente incontrano crescenti difficoltà politiche sul versante interno.
Il governo tedesco è minato dalla crisi profonda della SPD e dalle contraddizioni interne alla maggioranza “semaforo”.
Il governo francese è colpito dalla crisi interna al partito macronista En Marche, non dispone più di una maggioranza parlamentare stabile ed è minacciato dalla crescita del lepenismo.
Il governo spagnolo, sopravvissuto alle elezioni anticipate, vive una nuova crisi di consenso sul fronte dell'irrisolta questione catalana.
Il governo della Gran Bretagna attraversa la crisi storica del Partito Conservatore, che si somma alla crisi interna alla famiglia reale.
In diversi paesi il pendolo tradizionale dell'alternanza è stato scosso o destabilizzato da processi di polarizzazione politica.


POLARIZZAZIONE POLITICA E SOVRANISMO REAZIONARIO

La crescita della destra e dell'estrema destra sovranista in diversi paesi europei, dalla Germania alla Francia, dal Portogallo alla Romania, dall'Austria ai Paesi Bassi, è un riflesso della crisi politica e sociale del vecchio continente.

Il sovranismo, diversamente declinato, si candida a rappresentare settori declassati della piccola e media borghesia (è il caso del “movimento dei trattori”) ma anche a costruire l'egemonia piccolo/medio-borghese su ampi settori popolari e di lavoro salariato, nelle periferie e nella provincia profonda. È il tentativo di capitalizzare a destra la crisi congiunta dell'establishment liberale e del movimento operaio europeo. A differenza che in passato, le destre sovraniste dei paesi imperialisti combinano il vecchio spartito del nazionalismo militarista e atlantista con quello di un europeismo imperialista più “autonomo dagli USA” e dialogante con l'imperialismo russo.

È la rivendicazione di un'Europa confederale di stati indipendenti, quale potenza giudaico-cristiana, nemica di immigrati e musulmani. L'obiettivo è intercettare su basi reazionarie il sentimento pacifista “antiamericano” dell'opinione pubblica europea.

Il consenso elettorale delle destre in significativi settori della classe operaia industriale europea, in particolare in Francia e in Italia, misura lo scollamento dei vecchi blocchi sociali di centrosinistra sotto la pressione della crisi capitalistica.


LA CRISI DEL MOVIMENTO OPERAIO EUROPEO.
LA RESPONSABILITÀ DELLE BUROCRAZIE SINDACALI


La classe operaia europea ha conosciuto, in anni recenti, dinamiche di lotta molto differenziate da paese a paese. La Francia ha vissuto nell'ultimo decennio ripetuti processi di mobilitazione e radicalizzazione, contro la liberalizzazione dei licenziamenti e l'innalzamento dell'età pensionabile. L'Italia, all'opposto, resta segnata da un riflusso prolungato e profondo della classe operaia, dopo la sconfitta subita su tema dei licenziamenti (Jobs Act del governo Renzi, 2014-2015) e dell'istruzione pubblica (Buona Scuola, 2015). Un analogo ripiegamento ha investito il proletariato greco dopo l'esperienza traumatica del governo Syriza.

Una forte ripresa di lotte salariali ha interessato nell'ultimo anno la Gran Bretagna, con un significato di importante risveglio dopo la sconfitta storica subita quarant'anni fa per mano del governo Thatcher. Movimenti di lotta sul terreno salariale si sono prodotti, su scala più limitata, anche in Francia e in Germania, prevalentemente nel settore pubblico e nei servizi, meno nel proletariato industriale.

Nel complesso il livello di mobilitazione del proletariato europeo, per responsabilità delle sue direzioni, è oggi molto al di sotto delle necessità e della portata obiettiva dello scontro, sia sul terreno sindacale che sul piano politico più generale, sia nei diversi paesi che su scala continentale.

La diffidenza e ostilità verso il militarismo restano ancora prevalentemente passive. La necessaria mobilitazione contro la guerra, contro l'economia di guerra, contro la corsa generale agli armamenti, è stata per lo più rimpiazzata o da un affidamento passivo alla NATO in chiave antirussa (in particolare in Polonia e nel Nord Europa) o all'opposto da un sentimento diffuso antiucraino mascherato dal pacifismo (particolarmente forte in Italia). I movimenti di solidarietà con la Palestina, di grande rilevanza politica, hanno registrato dimensioni di massa in Gran Bretagna, una diffusa partecipazione giovanile in diversi paesi, una sintonia generale col senso comune maggioritario dell'opinione pubblica europea, decisamente filopalestinese; ma vedono ancora l'assenza del grosso del movimento operaio organizzato. Il movimento ambientalista del Fridays For Future, che aveva conosciuto una forte espansione tra il 2018 e il 2021 in importanti settori della gioventù europea, ha conosciuto una parabola declinante, anche per l'assenza di un riferimento di classe. L'importante mobilitazione democratica in Germania contro l'estrema destra nei primi mesi del 2024 è stata subordinata al governo a guida SPD, e perciò stesso deprivata di larga parte delle proprie energie e potenzialità.

Le burocrazie dirigenti del movimento operaio e sindacale europeo hanno avuto e hanno in tutto questo una responsabilità decisiva, subordinando ovunque la classe operaia alle necessità del proprio imperialismo e/o della propria borghesia.
In Francia hanno smobilitato il movimento di lotta sulle pensioni per paura di perderne il controllo. In Italia rifiutano ogni ipotesi di vertenza generale, pur in presenza di undici milioni di salariati in attesa di contratto. In Germania accettano di sacrificare le rivendicazioni salariali del settore pubblico alle esigenze di spesa militare. In Spagna sostengono il quadro di concertazione sociale col governo Sanchez e il padronato.

A maggior ragione è assente ogni piattaforma di lotta continentale ed ogni azione di lotta su scala europea. La stessa critica del nuovo Patto di Stabilità europeo da parte della Confederazione Europea dei Sindacati si limita a pronunciamenti innocui (13 dicembre 2023). La passività sul terreno del contrasto del militarismo e la mancata risposta all'appello dei sindacati palestinesi per la mobilitazione contro Israele misurano la profonda corresponsabilità delle burocrazie sindacali agli imperialismi europei e alle borghesie del continente.


LA SINISTRA EUROPEA TRA GOVERNISMO E CAMPISMO

La sinistra politica continentale, a sua volta, rivela tutta la propria subalternità al nuovo quadro internazionale.

La socialdemocrazia europea, con diverse declinazioni, ha gestito o gestisce la politica imperialista con ruoli di governo, sia a livello di Unione Europea in alleanza con PPE e liberali, su una linea europeista-atlantista, sia all'interno dei diversi contesti nazionali, con esiti e dinamiche differenziati.
In Germania la SPD guida il governo dell'imperialismo tedesco nel momento della sua svolta militarista.
In Spagna il PSOE dirige il governo dell'imperialismo spagnolo, subordinandovi il movimento operaio attraverso una politica di concertazione sindacale.
In Francia il PS ha subito gli effetti distruttivi del proprio ruolo di governo nel precedente decennio e dello scontro diretto con le resistenze sociali, sino al tracollo dei propri legami di massa.
In Italia lo spazio della socialdemocrazia è stato occupato precocemente sin dagli anni '90 da una formazione borghese liberale nata dalle ceneri del vecchio partito stalinista e tradizionalmente legato all'establishment (PDS, poi DS, infine PD). La sua gestione prolungata delle politiche di austerità ne ha largamente compromesso l'immagine pubblica nella classe lavoratrice, a beneficio della destra.
In Gran Bretagna il Labour Party si candida al governo con una nuova torsione liberale di matrice blairiana dopo aver archiviato la breve parentesi riformista di Corbyn: l'ostilità della nuova segreteria Labour verso gli scioperi operai dell'estate 2023 è il biglietto da visita del “nuovo” corso laburista.

I partiti della sinistra europea che negli anni '90 e 2000 hanno cercato un proprio spazio a sinistra della socialdemocrazia liberale sono vittima delle proprie ambizioni di governo.
Rifondazione Comunista si è autodistrutta quasi vent'anni fa con il proprio coinvolgimento nel governo di Romano Prodi (2006-2008) e nelle sue politiche antioperaie.
Syriza ha bruciato la domanda di svolta dell'ascesa di massa del 2012-2015 sull'altare del governo dell'austerità del memorandum della troika (2015-2019), ed è oggi investita da una crisi e disarticolazione profonda.
Podemos ha largamente disperso il consenso raccolto dopo le mobilitazioni degli Indignados (2011) con la propria perdurante partecipazione ai governi dell'imperialismo spagnolo a guida Sanchez (dal 2019).
Il Partito Comunista Portoghese e il Bloco de Esquerda hanno sostenuto per quattro anni (2015-2019) il governo della socialdemocrazia portoghese di Costa, con il suo taglio pesante degli investimenti pubblici.
La Linke tedesca, dall'opposizione, ha votato dopo il 7 ottobre le politiche filosioniste del governo dell'imperialismo tedesco ed ha subito una importante scissione dal versante sovranista e rossobruno guidata da Sahra Wagenknecht.
La NUPES francese si è disgregata sull'onda dell'allineamento “critico”del Partito Comunista Francese alle politiche di legge e ordine di Macron e al suo fronte repubblicano a difesa di Israele. La France Insoumise di Mélenchon preserva la propria versione di populismo nazionalista di sinistra, dominato dalle ambizioni personalistiche del suo leader: la comune subalternità della NUPES alle burocrazie sindacali francesi le ha rese corresponsabili della sconfitta dei movimenti di lotta (movimento contro la Legge Khomri e movimento contro la riforma delle pensioni).
Infine Jeremy Corbyn, asceso ai vertici del Labour Party britannico nel 2015 sulla base di un programma riformista antiblairiano, ha sacrificato il consenso militante raccolto all'unità con l'ala liberale del Labour Party, finendo battuto e umiliato da questa.

Complessivamente, la pretesa di costruire una nuova socialdemocrazia di sinistra su scala continentale è crollata sotto il peso delle derive governiste e/o delle pressioni degli imperialismi nazionali. La bandiera ideologica dell'“Europa sociale, democratica, di pace” è stata ed è solamente la copertura ideologica di questa politica di compromissione.

Un altro settore della sinistra europea, per lo più di estrazione stalinista, ha sposato posizioni campiste, col sostegno ai nuovi imperialismi russo e cinese, presentati come alternativa progressista alla NATO. L'allineamento si è tradotto nell'appoggio all'invasione russa dell'Ucraina, o in forma esplicita e diretta o in una versione mascherata di tipo pacifista. L'area campista è variegata, con articolazioni interne anche molto diverse l'una dall'altra. La sua ala estrema è sfociata nel rossobrunismo, in aperta sinergia con ambienti di estrema destra sovranista e posizioni reazionarie no vax, anti-immigrati, anti-ecologiche, anti-gay. La cosiddetta Piattaforma Mondiale Antimperialista (WAP) è il principale luogo di aggregazione internazionale della componente estrema del campismo. Tale aggregazione ha determinato la scissione interna all'area stalinista internazionale, con la nascita del nuovo polo di Azione Comunista Europea (ECA) attorno alle posizioni anticampiste del KKE greco.

La disgregazione interna del movimento stalinista è un sottoprodotto della nuova polarizzazione imperialista su scala mondiale. E chiama in causa, una volta di più, la necessità di un bilancio storico di fondo dello stalinismo e della sua deriva.


LA PROSPETTIVA SOCIALISTA, UNICA VERA ALTERNATIVA

La prospettiva socialista è l'unica soluzione storicamente progressiva. Lo è sul piano mondiale. Lo è di riflesso sul terreno europeo, in contrapposizione sia all'europeismo borghese liberale, sia al sovranismo reazionario.

Solo la classe operaia può unire l'Europa su basi progressive. Nel quadro capitalista e imperialista il vecchio continente è condannato al declino, nella morsa della polarizzazione mondiale tra vecchie e nuove potenze imperialiste. In tale quadro nessuna delle esigenze elementari della classe operaia e delle masse oppresse può trovare soddisfazione.
La crisi capitalista e il crollo dell'URSS hanno chiuso da tempo lo spazio storico delle riforme in Europa. Tutte le istanze del proletariato e dei movimenti progressivi del vecchio continente (sociali, ambientali, di genere, antirazzisti, antimilitaristi) pongono la necessità della rottura anticapitalistica. È la prospettiva del governo dei lavoratori, in ogni paese e su scala europea. È la prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d'Europa.

Questa parola d'ordine non è una improvvisazione propagandistica. Fu la parola d'ordine del movimento comunista nei suoi anni rivoluzionari. La Terza Internazionale comunista l'assunse formalmente nel 1923, a seguito dell'occupazione francese della Ruhr, contro il veleno dei nazionalismi imperialisti. Lo stalinismo la cancellò, assieme all'intero programma comunista.

Oggi il nuovo contesto mondiale di scontro interimperialista, l'irruzione della guerra nel cuore dell'Europa, la corsa generale agli armamenti, ripropongono l'attualità di questa prospettiva storica, contro ogni sorta di atlantismo, di europeismo imperialista, di sovranismo nazionalista, di campismo.

La nostra difesa dell'Ucraina dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo muove da un'angolazione di piena autonomia da tutti gli imperialismi. Innanzitutto dall'imperialismo di casa nostra. L'imperialismo nord-americano e britannico, gli imperialismi nazionali della UE, fanno leva sulla guerra in Ucraina per promuovere l'allargamento della NATO, in Europa e sul Pacifico, per sospingere e giustificare la propria corsa agli armamenti (infinitamente più grande degli “aiuti” all'Ucraina), per prepararsi alle guerre future contro gli imperialismi rivali.
Parallelamente, l'imperialismo russo e il suo regime reazionario vedono l'invasione dell'Ucraina come parte della ricostruzione della propria area d'influenza grande-russa nella stessa Europa, e del rilancio della propria politica di potenza in Medio Oriente e in Africa, in alleanza oggi con l'imperialismo cinese.

I lavoratori e le lavoratrici dell'Unione Europea e della Russia non hanno alcun interesse a prender parte, da un lato o dall'altro, alla spartizione del mondo tra vecchi e nuovi imperialismi. Al contrario: solo la lotta contro tutti gli imperialismi può salvaguardare il proprio interesse indipendente, a partire dalla propria aspirazione alla pace.

Se vuoi la pace prepara la rivoluzione” dichiarava Karl Liebknecht. La prospettiva del governo dei lavoratori e degli Stati Uniti Socialisti d'Europa traduce questa consegna.


PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA, DALL'ATLANTICO A VLADIVOSTOK

La prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d'Europa travalica il perimetro dell'attuale Unione Europea. La geografia politica dell'Europa attuale è figlia delle scomposizioni e ricomposizioni attuate e negoziate dalle potenze borghesi dopo il crollo del Muro di Berlino e la restaurazione capitalistica in URSS. La linea di divisione tra proletari dell'Europa occidentale e proletari russi è stata riproposta su basi nuove dal contrasto fra imperialismi rivali. Da un lato gli imperialismi NATO, dall'altro l'imperialismo russo, arruolano l'uno contro l'altro il “proprio” proletariato in funzione dei rispettivi interessi imperialisti e della corsa agli armamenti. Unire i proletari contro i propri imperialismi significa battersi per unire l'Europa al di là delle sue attuali frontiere, per una Europa unita dall'Atlantico a Vladivostok, per una federazione socialista europea: l'unico quadro in cui sarà possibile risolvere, su basi progressive, la stessa miriade di questioni nazionali, grandi o piccole, che percorrono la penisola balcanica, l'est europeo, la Federazione Russa. Questioni che non possono trovare soluzione né sotto il comando degli imperialismi della UE né sotto la dominazione grande-russa.

Nella stessa UE i vecchi confini tra i principali stati nazionali non hanno alcuna funzione progressiva. Essi sono tenuti in piedi dall'interesse delle diverse borghesie, che usano la retorica propagandista dell'Europa quando devono imporre sacrifici ai propri operai o negoziare l'aiuto per le proprie banche, ma si tengono ben stretti i propri stati nazionali come strumento d'ordine sul piano interno, come comitati d'affari e camera di compensazione dei propri conflitti di interesse, come procacciatori di commesse e profitti sul mercato mondiale, come strumento militare di intervento o respingimento.

La sola cancellazione dei vecchi confini artificiali e del parassitismo degli Stati borghesi nazionali rappresenterebbe di per sé un grande salto in avanti della ricchezza sociale disponibile per tutti i lavoratori europei. Una pianificazione democratica dell'economia europea che mettesse insieme, a vantaggio dei lavoratori, la forza produttiva dell'intero continente costituirebbe un enorme progresso. Squilibri territoriali atavici (dalla questione meridionale italiana al mezzogiorno spagnolo) potrebbero essere compiutamente affrontati entro un grande piano continentale per il lavoro. Le questioni nazionali irrisolte e irrisolvibili nel contesto della UE e dell'Europa capitalista (la questione irlandese, la questione basca, la questione catalana...) potrebbero trovare soluzione nel quadro federale socialista europeo, col pieno diritto di autodeterminazione di ogni nazionalità oppressa, entro il richiamo unificante di una comunità continentale non più oppressiva: una repubblica europea dei consigli dei lavoratori e delle lavoratrici.

L'Europa dei lavoratori e delle lavoratrici rappresenterebbe a sua volta uno strumento di sostegno ai lavoratori e ai popoli oppressi di tutto il mondo contro il capitalismo e l'imperialismo.
La cancellazione di ogni pretesa e diritto coloniale delle vecchie madrepatrie sarebbe il primo atto di un governo dei lavoratori, in ogni paese e su scala europea. In particolare il pieno sostegno al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese contro lo stato sionista, e del popolo curdo contro gli stati che lo opprimono, sarebbe un messaggio di liberazione alle masse oppresse di tutta la nazione araba e del Medio Oriente, e un forte incoraggiamento alla loro lotta.

Lo stesso sviluppo della lotta per un governo dei lavoratori in Europa potrebbe dare un forte impulso al movimento operaio internazionale a tutte le latitudini e in tutti i continenti.


PER UN PROGRAMMA DI LOTTA UNIFICANTE

Solo la prospettiva socialista del governo dei lavoratori può liberare una piattaforma di lotta unificante del proletariato, in ogni paese europeo e su scala continentale, capace di aggregare attorno a esso le istanze progressive di emancipazione e liberazione dei settori oppressi della società.

La lotta politica e di classe assume naturalmente forme diverse da paese a paese, in base alle diverse specificità nazionali, contesti politici, esperienze e tradizioni del movimento operaio. L'articolazione della piattaforma di lotta non può prescindere da questo principio di realtà. Tuttavia i contenuti dello scontro di classe travalicano, tanto più oggi, i confini nazionali.
L'Unione Europea ha unito la borghesia contro il lavoro. Si tratta allora di unire il lavoro contro la borghesia europea. La lotta in ogni paese per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici implica un quadro di rivendicazioni comuni e unificanti.

Per l'aumento generale dei salari e la scala mobile dei salari.
Per la cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro. A pari lavoro, pari diritti.
Per la cancellazione di ogni legislazione anti-immigrati e il riconoscimento pieno dei loro diritti.
Per la ripartizione del lavoro fra tutti attraverso la scala mobile delle ore di lavoro.
Per un grande piano di nuovo lavoro e investimenti pubblici nel risanamento ambientale, nella riconversione energetica, nelle energie rinnovabili, finanziato dalla tassazione progressiva dei grandi capitali, profitti, rendite.
Per un grande piano di investimenti pubblici nella sanità, nell'istruzione, nella socializzazione dell'economia domestica, finanziato dalla cancellazione del debito pubblico verso le banche e dalla loro nazionalizzazione senza indennizzo per i grandi azionisti.
Per l'esproprio senza indennizzo e sotto controllo operaio delle imprese che licenziano, che inquinano, che violano i diritti sindacali.
Per l'esproprio delle grandi proprietà ecclesiastiche (bancarie, finanziarie, immobiliari), la cancellazione di ogni privilegio clericale, l'abrogazione di tutte le leggi e misure discriminatorie nei confronti delle donne ed LGBTQI.
Per l'abbattimento delle spese militari e l'esproprio sotto controllo operaio dell'industria bellica.
Per la nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori dell'industria farmaceutica, dell'industria chimica, della grande industria alimentare, delle grandi aziende agricole, della grande distribuzione.
Per la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori del sistema ferroviario, aereo, portuale, logistico
Per la nazionalizzazione dei grandi monopoli in tutti i settori strategici della produzione, a partire dall'industria automobilistica e siderurgica, della energia, delle telecomunicazioni.


Tali misure, al di là delle loro particolarità, hanno un significato d'insieme: configurano un'alternativa di sistema all'anarchia del mercato e alla concorrenza capitalistica. Dunque alla distruzione di diritti sociali, devastazioni ambientali, oppressioni, dinamiche di guerra, che esse trascinano con sé. Non indicano una “nuova politica economica”, secondo la vecchia retorica riformista, ma una diversa struttura dell'economia, fondata sulla soddisfazione dei bisogni della società in base a un piano democraticamente definito dai lavoratori e sotto il loro controllo. Una alternativa di società e di potere.

La lotta per queste rivendicazioni parte in ogni paese dalle esigenze elementari della classe lavoratrice e delle masse oppresse, e va sempre ancorata ad esse. Al tempo stesso, traccia un ponte tra queste esigenze e la necessità di un governo dei lavoratori: l'unico governo che, rompendo col capitalismo, può realizzare compiutamente tali rivendicazioni e riorganizzare la società su basi nuove. La lotta per il governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro organizzazione e la loro forza, è ovunque il cuore di questo programma. Il suo coronamento naturale e centrale. Ed anche il principio di riferimento della piena autonomia del movimento operaio da ogni governo capitalista.


PER UNA RISPOSTA RADICALE ALLA REAZIONE

Il fondamento di questo programma di lotta non sta nella coscienza soggettiva della classe operaia e delle masse oppresse ma nella condizione oggettiva della società. La coscienza soggettiva delle grandi masse ha conosciuto un arretramento più o meno profondo. Ma oggettivamente solo una rottura anticapitalista può riaprire un orizzonte di progresso per l'umanità. Si tratta di far leva su questa verità per portarla controcorrente nella coscienza soggettiva della massa. Il programma ha innanzitutto questa funzione: mettere il movimento operaio al passo con la svolta d'epoca in corso.

L'attualità del programma anticapitalistico è anche di natura politica. L'esaurirsi dello spazio riformista sotto la pressione della crisi sociale e delle dinamiche di guerra richiama l'esigenza di soluzioni radicali. O tale soluzione è imposta dalla classe lavoratrice sul terreno anticapitalistico o rischia di essere imposta da forze più o meno reazionarie contro la classe lavoratrice.
La crisi delle tradizionali forme di alternanza liberale, l'irruzione di grandi processi di polarizzazione politica, testimonia l'attualità di questo bivio. La stessa crescita della destra sovranista in Europa è la misura della crisi del movimento operaio nell'approntare una propria soluzione della crisi del capitalismo. Risolvere questa crisi è dunque parte decisiva della stessa battaglia contro la reazione.

Peraltro solo una lotta radicale su una piattaforma di lotta unificante può scomporre i blocchi sociali reazionari, liberare settori di classe oggi lì imprigionati, ricomporre un blocco sociale alternativo, ribaltare i rapporti di forza, riaprire dal basso lo scenario politico. Solo una lotta radicale può strappare cammin facendo risultati e conquiste parziali. Solo ponendo la questione del potere si può indurre la borghesia a fare concessioni. La borghesia concede qualcosa quando ha paura di perdere tutto. Le riforme, come diceva Lenin, sono un sottoprodotto della rivoluzione. Tanto più in un'epoca di crisi.

Non si tratta dunque di contrapporre questo programma agli obiettivi immediati dei movimenti, ma di portare in ogni movimento questo programma. Di ricondurre i suoi obiettivi immediati a una prospettiva anticapitalista. Vale per il movimento operaio come vale per ogni movimento progressivo, di genere, ambientale, antirazzista, antimilitarista, antifascista. Tutte le rivendicazioni progressive, sociali, democratiche, di pace richiamano la necessità di rompere col capitalismo e con l'imperialismo. E dunque la necessità di un riferimento centrale alla classe lavoratrice come forza centrale di un'alternativa. Parallelamente, la classe lavoratrice potrà assolvere il ruolo rivoluzionario solo se assume nel proprio programma tutte le istanze di emancipazione e liberazione delle masse oppresse della società, fuori da ogni ripiegamento economicista.


PER UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA, CLASSISTA E INTERNAZIONALISTA

Il programma è in funzione dell'orientamento della massa e dello sviluppo della sua coscienza. Ma lo sviluppo della coscienza di massa richiede la presenza di un'avanguardia organizzata che intervenga nella classe operaia, nelle organizzazioni di massa, in ogni movimento progressivo.

Un'avanguardia unita dal programma, da una comune comprensione del corso generale degli avvenimenti mondiali, da una comune memoria storica della propria classe di riferimento, sul piano nazionale e internazionale. Raggruppare controcorrente questa avanguardia è una necessità politica urgente. Una necessità mondiale, una necessità in Europa.

La deriva della vecchia sinistra riformista e campista si è consumata in tutto il continente. La ricostruzione in ogni paese e su scala europea una sinistra rivoluzionaria, anticapitalista, internazionalista, è il compito centrale dei marxisti rivoluzionari in Europa.

Partito Comunista dei Lavoratori

Per lo sviluppo del movimento studentesco pro Palestina

 


Sostenere la protesta! Contrastare repressione e intimidazione! Allargare la base di massa del movimento!

La guerra di annientamento condotta da Israele contro il popolo palestinese di Gaza suscita una reazione di rigetto tra moltissime studentesse e studenti. Troppo grande è lo scarto che ognuno avverte tra le immagini di morte, distruzione, umiliazione che si abbatte ogni giorno su una popolazione affamata, e la rappresentazione ufficiale della guerra come “diritto di difesa” di Israele. Troppo grande il contrasto tra la recita ipocrita delle preoccupazioni umanitarie per i palestinesi e la continuità dei rifornimenti militari allo Stato oppressore da parte delle cosiddette “democrazie”, a partire dagli USA. Una complicità di cui è partecipe lo Stato italiano e il suo governo.

La repulsione di tutto questo si è espressa nella protesta che attraversa le università attorno alla richiesta della cancellazione degli accordi tra Italia e Stato israeliano, e delle conseguenti collaborazioni accademiche a sfondo tecnologico-militare. Una protesta che in queste settimane si sta allargando sul piano internazionale, a partire dalle lotte nei campus degli USA. Si tratta di una protesta importante e di una rivendicazione giusta. L’industria militare italiana, a partire dal gruppo Leonardo, non solo vende armi a Israele ma finanzia ove può la ricerca scientifica indirizzandola a scopi militari. “Le università non entrano in guerra, non si schierano né da una parte né dall’altra” ha dichiarato la ministra Bernini. La verità invece è che vengono spesso coinvolte dagli interessi economici e militari dell’industria bellica. Gli stessi che i governi italiani tutelano.

Contro la protesta studentesca si è levato un coro di (finta) indignazione non solo da parte del governo Meloni, ma anche di tanta parte dell’“opposizione” liberale e della sua stampa di riferimento. Chi denunciando l’“antisemitismo”, chi addirittura evocando lo spettro del “terrorismo”. Ipocrisia pura. Il vero aiuto all’“antisemitismo” lo dà chi identifica il popolo ebraico con lo Stato sionista, la grande storia dell’ebraismo con la storia di una impresa coloniale. Quanto al “terrorismo” è il termine che descrive esattamente la pratica dei bombardamenti, dei rastrellamenti, della tortura, da parte dello Stato di Israele: una pratica che certo non inizia il 7 ottobre, ma ha accompagnato la storia secolare dell’occupazione sionista della Palestina.

Si sta cercando dunque di costruire una barriera di recinzione attorno alla protesta studentesca col metodo dell’intimidazione preventiva. Là dove non sono bastati i manganelli della polizia, come a Pisa, Firenze, Roma, si cerca di delegittimare le ragioni delle studentesse e degli studenti, attraverso una operazione volgare di demonizzazione. L’ambasciata di Israele, e la sua azione di lobby, è parte attiva di questo clima.

Si può e si deve reagire a tale operazione lavorando ad estendere la protesta studentesca, ad allargare la sua base di massa. Sinora l’azione di protesta è stata condotta da una avanguardia combattiva, preziosissima ma ancora limitata. Le sue ragioni trovano corrispondenza col sentimento filopalestinese della maggioranza dei giovani e della stessa opinione pubblica, ed è un fatto importantissimo. Ma la massa degli studenti, a parte alcune eccezioni, non è stata ancora coinvolta. Questo limite va superato.

In ogni università crediamo vadano promosse assemblee di facoltà e di interfacoltà, cercando di coinvolgere le studentesse e gli studenti in prima persona. La simpatia sinora prevalentemente passiva va trasformata in partecipazione attiva. Le assemblee studentesche possono e debbono diventare il luogo di confronto, di approfondimento, di definizione della stessa piattaforma di lotta del movimento. Ed anche di designazione, ove possibile, delle delegazioni studentesche che vanno a incontrarsi o scontrarsi coi senati accademici.

Pensiamo che i diversi soggetti organizzati oggi operanti nell’avanguardia studentesca (collettivi e associazioni) dovrebbero unire le proprie forze nel promuovere questo vero e proprio salto del movimento studentesco, in direzione dell’allargamento della sua base di massa. È ciò di cui hanno paura le classi dirigenti. La paura, non a caso più volte evocata, di “un nuovo ‘68”. La paura, insomma, che la mobilitazione pro-Palestina possa diventare quello che fu mezzo secolo fa la mobilitazione per il Vietnam. Un fattore di politicizzazione di centinaia di migliaia di giovani, e di maturazione di una pulsione anticapitalista e antimperialista più generale.

Siamo ancora molto lontani da questo. Ma crediamo si debba lavorare a questa prospettiva. La questione non è sapere se questo o quell’altro soggetto studentesco (Cambiare Rotta-PaP, FGC, o altri) farà (legittimamente) nuovi proseliti per la propria organizzazione. La questione è se si svilupperà un movimento studentesco di massa, con sue forme unitarie di autorganizzazione democratica, e una sua strutturazione unitaria nazionale. Un movimento di massa nel quale ogni organizzazione potrà sostenere il proprio punto di vista e le proprie proposte.

Per quanto ci riguarda lavoreremo in questa logica: una logica unitaria e di massa. E al tempo stesso, proprio perché interessati allo sviluppo del movimento, crediamo sia giusto presentare apertamente le nostre posizioni, le posizioni del marxismo rivoluzionario.

Lottare per estendere al massimo la mobilitazione al fianco del popolo palestinese significa avere chiaro che la liberazione della Palestina implica necessariamente la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista unita ad una prospettiva di estensione della rivoluzione proletaria a tutto il Medio Oriente. Solo una Palestina libera dal sionismo, una Palestina laica, una Palestina socialista, può realizzare l’autodeterminazione del popolo palestinese, a cominciare dal diritto al ritorno di milioni di palestinesi cacciati dalla propria terra fin dal 1948. Solo questa Palestina, riconoscendo i diritti nazionali della minoranza ebraica, può consentire la pacifica convivenza di arabi ed ebrei. In prospettiva storica, solo una rivoluzione socialista può liberare l’umanità e tutti i popoli oppressi dalla piaga del capitalismo e dell’imperialismo, e quindi da ogni forma di colonialismo e di guerra. Il sostegno ai palestinesi e alla loro resistenza può e deve connettersi a questa prospettiva storica di liberazione.

• Allargare la base di massa del movimento studentesco pro Palestina
• Per l’autorganizzazione democratica del movimento e una sua strutturazione nazionale
• Estendere ed unificare la mobilitazione al fianco della resistenza del popolo palestinese
• No alla repressione dello Stato: costruire strutture unitarie di autodifesa
• Per la fine dell’assedio e del massacro di Gaza, no all’invasione di Rafah
• Per la liberazione della Palestina e la distruzione rivoluzionaria dello Stato di Israele
• Per una Palestina libera, laica e socialista nell’ambito di una Federazione socialista del Medio Oriente

Partito Comunista dei Lavoratori

La disciplina alla scuola di Valditara

 


Dopo le manganellate di Pisa, Firenze, Roma, contro gli studenti pro Palestina, il governo procede a disciplinare la scuola.


Solo se il voto di comportamento assegnato sarà pari o superiore a nove decimi sarà possibile assegnare il punteggio più alto nell'ambito della fascia di attribuzioni del credito”: si tratta del primo articolo del provvedimento varato dal Senato su proposta del ministro dell'Istruzione Valditara. In parole meno tortuose significa che solo se il tuo “comportamento” di studente sarà valutato col nove o col dieci potrai ottenere il massimo dei voti.

Notevole. I cultori ideologici del merito ti dicono che puoi eccellere in tutte le materie ma il merito non conta: tutto dipende dal tuo “comportamento”. Se partecipi all'occupazione o autogestione della tua scuola, se contesti il/la tuo/a preside o le decisioni del tuo consiglio di istituto, puoi essere punito con la cancellazione dei tuoi risultati scolastici.

Non solo. L'articolo tre del provvedimento a “tutela dell'autorevolezza e del decoro delle istituzioni” sancisce che in caso di “reati commessi in danno del personale della scuola” (non meglio precisati) non dovrai semplicemente risarcire il danno, ma anche pagare una multa da 500 a 10000 euro come “riparazione all'istituzione”. Una sorta di tributo aggiuntivo allo Stato, quale incarnazione dell'Autorità.

Queste misure reazionarie non hanno solo una valenza ideologica. Hanno una funzione deterrente. Hanno lo scopo di intimidire preventivamente ogni possibile ribellione degli studenti. La disciplina a scuola di Valditara vuol essere una scuola di disciplina: la disciplina dell'obbedienza e del silenzio. Si usa la leva della paura per completare quella del manganello.

Ma la leva della paura è solo il riflesso capovolto della paura del potere. La paura di perdere il controllo disciplinare della giovane generazione. Le proteste studentesche pro Palestina hanno in Italia ancora una portata molto ridotta rispetto alla massa degli studenti. Ma sono la spia di un malessere più ampio. In ogni caso un campanello d'allarme per il governo Meloni.

Allargare la mobilitazione è allora necessario non solo per le ragioni della Palestina, ma anche per rispondere alla stretta repressiva di un governo a guida postfascista. Più che mai ribellarsi è giusto.

Partito Comunista dei Lavoratori

La polizia di Berlino interrompe il Congresso sulla Palestina. La libertà di parola diventa una farsa

 


Con un'azione che ha pochi precedenti recenti di questo tipo, il governo tedesco è arrivato a disturbare, fino all'impedimento fisico, il Congresso sulla Palestina, una conferenza internazionale con centinaia di attivisti e militanti.

Pubblichiamo il resoconto della conferenza e delle gesta censorie delle autorità scritto dai compagni di ArbeiterInnenmacht, anch'essi oggetto di repressione poliziesca. A loro, e al movimento per la Palestina in Germania, va la nostra solidarietà.



Le restrizioni ai diritti democratici fanno ormai parte del normale stato di "democrazia". La "solidarietà incondizionata" con Israele, dichiarata da Angela Merkel e Olaf Scholz come la ragion d'essere dello stato tedesco, è chiaramente incompatibile con la libertà di espressione.

Libertà di espressione che è stata messa nel mirino, come raramente prima, il 12 aprile a Berlino, una città che può vantare una lunga storia di violenza e arbitrio da parte della polizia.

Ma mentre tale repressione si concentra "normalmente" su manifestazioni, occupazioni, blocchi stradali, oltre che su atti di disobbedienza civile o sulla ribellione di precari, questa volta l'attacco alla libertà di espressione ha avuto come obiettivo una conferenza organizzata democraticamente, il Congresso sulla Palestina.


RAGIONE DI STATO

La solidarietà con Israele è stata dichiarata, anzi esaltata, come interesse primario della Germania, anche se le sue forze armate hanno appena ucciso circa 40.000 persone, e a Gaza oltre un milione di persone sono state cacciate dalle loro case e le loro città ridotte in macerie. Ora centinaia di migliaia di persone sono minacciate dalla fame. Il governo tedesco, l'opposizione borghese e i media, di fatto coalizzati, si aggrappano alla finzione che Israele stia solo esercitando il suo "diritto all'autodifesa", invece di condurre una guerra di aggressione genocida. E non è tutto: la Germania sostiene la guerra non solo politicamente e diplomaticamente, ma anche militarmente. Solo nel 2023, le esportazioni di armi verso Israele sono decuplicate.

Di conseguenza, questa guerra viene portata avanti anche in Germania. Da un lato, ciò ha lo scopo di lavare ideologicamente la colpa dell'imperialismo tedesco per l'Olocausto, mentre dall'altro, lo stato tedesco sta perseguendo i suoi tangibili interessi economici e, soprattutto, geostrategici.

Lo stesso esercizio del diritto alla libertà di parola è quindi diventato un'attività quasi criminale. Per settimane, gli opinionisti "democratici", sia reazionari che liberali, hanno chiesto ai media di vietare il Congresso sulla Palestina. Poiché ciò non era legalmente possibile, per giorni sono state avanzate richieste e minacce, che sono poi state messe in atto dalla polizia il 12 aprile. Il sindaco conservatore di destra di Berlino Karl Wegner ha minacciato per settimane un "intervento rigoroso" al "minimo sospetto" di dichiarazioni illegali. In parole semplici, ciò non significa altro che la minaccia di criminalizzare qualsiasi critica aperta allo Stato di Israele e alle sue basi razziste, qualsiasi solidarietà con la Palestina, qualsiasi posizione antisionista e qualsiasi difesa dei diritti democratici del popolo palestinese, in particolare del suo diritto all'autodeterminazione nazionale.


UNA PROVOCAZIONE

La giornata di apertura del Congresso sulla Palestina ha quindi avuto inizio con vessazioni inverosimili e assurde. Le norme antincendio ed edilizie sono state usate come pretesto per far entrare solo 250 persone in un locale che può ospitarne 600. Fin dall'inizio, quindi, è stato impedito a centinaia di persone di partecipare all'evento. Inoltre, la polizia ha prolungato artificialmente per ore l'intero processo di ammissione dei partecipanti.

Mentre le autorità negavano l'ingresso a centinaia di persone munite di biglietto, la polizia ha fatto entrare di nascosto giornalisti filosionisti e provocatori del quotidiano conservatore Die Welt, che aveva condotto una campagna gravemente diffamatoria contro l'evento e i diritti dei suoi organizzatori. Inoltre, la polizia ha posto come condizione per l'inizio dei lavori la presenza massiccia di agenti (in uniforme e in borghese). La polizia di Berlino ha schierato circa 900 agenti per ottenere questo risultato e portare a termine questa missione politica. Ed è riuscita a farlo.


IL DISCORSO DI HEBH JAMAL

Nonostante tutte queste vessazioni, provocazioni e metodi da stato di polizia (da cui Putin, Erdogan, Netanyahu, Biden, ma anche Meloni e Macron potrebbero ancora imparare qualcosa), il Congresso è iniziato con un discorso commovente, quello di Hebh Jamal, una giornalista palestinese-americana residente in Germania. Nel suo intervento ha esposto le menzogne, ma anche la cooperazione degli oppressori di tutto il mondo, una cooperazione che non è una teoria del complotto, ma rivela gli interessi comuni di tutte le classi dominanti in un ordine imperialista basato sullo sfruttamento e sull'oppressione. Soprattutto, Hebh Jamal ha chiarito che una conferenza che mette in evidenza i crimini della Nakba, l'espulsione e l'oppressione dei palestinesi, e la complicità dell'imperialismo tedesco, è di per sé un atto di resistenza.

La condanna di questa politica, che la conferenza si è impegnata a promuovere, è necessaria e fa parte della rottura del silenzio. È stato un momento di solidarietà che ci spinge ad agire, ad aumentare e a migliorare il coordinamento del nostro movimento.

Questo è esattamente ciò che l'intero establishment politico tedesco vuole evitare a tutti i costi. Questo "fronte unico" comprende i partiti della coalizione di governo, SPD, Verdi e Liberaldemocratici (FDP), e la principale forza di opposizione, i cristiano-democratici e cristiano-sociali della CDU-CSU, oltre all'estrema destra dell'AfD. Ma, vergognosamente, comprende anche parti del partito di sinistr Die Linke.


ECCO COS'È LA "DEMOCRAZIA" IMPERIALISTA

Il videomessaggio di Salman Abu Sitta, autore e ricercatore palestinese, cui lo stato tedesco aveva vietato l'ingresso nel paese a causa del suo coinvolgimento nel movimento di resistenza, è stato fermato dalla polizia dopo pochi minuti dall'inizio e senza alcun motivo apparente. Alla fine, all'avvocato degli organizzatori sono state fornite diverse motivazioni contraddittorie, molto discutibili anche dal punto di vista legale. A un certo punto la polizia ha spiegato che il discorso poteva contenere passaggi che potevano costituire un incitamento all'odio, e che ciò sarebbe stato oggetto di indagine. Sulla base del fatto che non si possono chiedere troppe "ragioni" per l'operato della polizia, è stato poi aggiunto che Salman Abu Sitta è stato bandito dall'attività politica in Germania.

La polizia non ha saputo dire quando e da chi ciò sia stato deciso, né se la riproduzione di un videomessaggio rientrasse nel divieto. Ma chi ha bisogno di motivazioni quando si ha a disposizione il monopolio dell'uso della forza? E per fugare ogni dubbio che il diritto alla libertà di riunione e di parola fosse calpestato, il congresso e tutti gli eventi successivi sono stati vietati e annullati sia il sabato che la domenica seguenti.

La polizia è così riuscita a interrompere e disperdere il Congresso. Ma non ci faranno tacere e non raggiungeranno il loro obiettivo di distruggere il nostro movimento, che sta crescendo e diventando sempre più forte.

Al contrario. Lo scioglimento arbitrario del congresso e l'attacco alla libertà di espressione non solo rivelano il carattere repressivo della polizia. Illustrano anche il carattere antidemocratico della politica del governo tedesco. E mostrano lo stretto legame tra la politica imperialista e la necessità di mantenere il monopolio dell'opinione pubblica. Oltre alla repressione, ci troviamo di fronte anche ad agitazioni e calunnie orchestrate, inclusa una massiccia ondata di razzismo antipalestinese, antimusulmano e antiarabo.

A nostro avviso, il fatto che i media tedeschi abbiano puntato anche i compagni dell'organizzazione ArbeiterInnenmacht [sezione tedesca della League for the Fifth International] e del suo gruppo giovanile REVOLUTION dimostra che abbiamo fatto qualcosa di buono. Tuttavia non vogliamo dimenticare che nelle ultime settimane l'establishment tedesco non ha nemmeno mancato di mostrare il suo lato antisemita, quando ha diffamato pubblicamente gli ebrei antisionisti, in particolare i compagni della Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East, e la cassa di risparmio di Berlino ha bloccato il loro conto associativo. Ma non dobbiamo dimenticare che sono soprattutto i nostri compagni palestinesi a essere brutalmente attaccati, le cui associazioni e organizzazioni sono minacciate e criminalizzate, e su cui pende la spada di Damocle dell'espulsione, mentre allo stesso tempo i loro amici e parenti muoiono o vengono buttati fuori dalle loro terre.

Oggi, 12 aprile 2024, i Wegner e i Giffey, gli Scholz e i Baerbock hanno potuto sciogliere il nostro congresso. Hanno i mezzi per farlo. Ma potrebbero non essere troppo sicuri del loro "successo", della loro "vittoria" sui nostri diritti democratici, e di certo non se la godranno troppo a lungo. Anche se sono riusciti a sciogliere il nostro congresso, esso è diventato - come una delle piccole ironie della storia - ancora più noto in tutto il mondo. Soprattutto, la repressione ha sensibilizzato molte più persone sul carattere reazionario e antidemocratico del capitalismo tedesco di quanto avrebbero potuto fare i nostri discorsi, contributi, discussioni e risoluzioni. L'imperialismo tedesco, in particolare, ha trascorso decenni a costruirsi l'immagine di essere relativamente "democratico" e "basato sui valori". Ma ora sta smascherando questa bugia autocelebrativa.

Faremo in modo che gli vada di traverso. Possono vietare un congresso, ma non spezzeranno la nostra resistenza, la nostra volontà di combattere, la nostra determinazione. Perché, a differenza loro, noi lottiamo per una causa giusta, per la libertà e l'autodeterminazione del popolo palestinese, per un mondo senza sfruttamento e oppressione.

Martin Suchanek

Lo scontro fra Iran e Israele

 


La crisi dell'ordine imperialistico del mondo



L'azione militare iraniana della scorsa notte contro Israele è parte dell'aggravamento della crisi internazionale. Effetto e concausa al tempo stesso. La dinamica degli avvenimenti in corso non è ancora definita. Diverse variabili sono in campo. Ma è possibile inquadrare alcuni primi elementi essenziali.


L'azione militare iraniana è una risposta all'attacco omicida dello stato sionista al consolato iraniano di Damasco. La risposta in sé è legittima. Israele ha bombardato la sede diplomatica di uno stato estero, entro i confini di un altro stato, con un'azione militare banditesca. Talmente banditesca che Israele stesso non ha potuto rivendicarla pubblicamente. Negare all'Iran il diritto di rispondere all'attacco subito significherebbe affermare il diritto israeliano all'impunità. Ciò che sarebbe inconcepibile, tanto più nel quadro della guerra di annientamento intrapresa dallo stato sionista contro il popolo palestinese di Gaza, con la complicità degli imperialismi alleati.

Sostenere questo diritto di replica, in barba a ogni pacifismo ideologico, non significa certo per parte nostra appoggiare politicamente il regime arcireazionario della Repubblica islamica, né rivendicare una guerra tra lo stato iraniano e lo stato sionista. Il regime islamico iraniano è e resta un regime dispotico, responsabile dell'oppressione quotidiana dei lavoratori, dei giovani, delle donne, della popolazione curda. Un'oppressione terribile e sanguinosa. Ma a rovesciare questo regime hanno diritto la classe operaia e le masse oppresse iraniane in funzione di una propria prospettiva di liberazione, non certo l'imperialismo e il sionismo per via militare e in funzione dei propri interessi egemonici.

È importante ora comprendere la logica dei diversi attori dello scontro, e il groviglio di contraddizioni che lo attraversa. La Repubblica Islamica ha dovuto rispondere all'attacco israeliano al proprio consolato in Siria per evitare di apparire una tigre di carta agli occhi dei propri alleati e interlocutori regionali. Al tempo stesso non ha alcuna intenzione di avventurarsi in una guerra dispiegata che possa mettere a rischio la propria tenuta e sopravvivenza. Da qui una reazione militare contenuta, prevalentemente dimostrativa, annunciata con largo anticipo, indirettamente concordata per alcuni aspetti, nella sua moderazione, con la stessa diplomazia degli imperialismi avversari, inclusa la diplomazia USA.

L'incognita vera ora è la reazione israeliana. Il governo Netanyahu, e segnatamente il premier, hanno usato in questi sette mesi la guerra di Gaza come mezzo della propria sopravvivenza politica. Hanno utilizzato naturalmente il sostegno inossidabile degli imperialismi alleati, a partire dall'imperialismo USA, ma anche forzato e travalicato i loro “consigli” nella gestione delle operazioni miliari. Parallelamente hanno cercato di polarizzare lo scontro su scala regionale contro l'Iran per costringere gli imperialismi alleati a schierarsi al proprio fianco, e restringere il loro spazio di manovra. Lo stesso attacco al consolato iraniano, in attesa di un'inevitabile risposta, rientrava in questo gioco spregiudicato. Tuttavia, oltre a una certa soglia il gioco di Netanyahu si fa rischioso.

Tutte le potenze imperialiste, a partire dagli USA, chiedono al governo israeliano di non rispondere all'attacco iraniano con una propria ritorsione militare, ma di attendere una risposta internazionale congiunta di carattere diplomatico. In pratica Biden chiede a Netanyahu di non aprire la guerra contro l'Iran, e di evitare una spirale incontrollabile. La stessa pronta assistenza militare americana e britannica a Israele nel fronteggiamento dei droni iraniani, anche col ricorso a portaerei e caccia, è in funzione di un preciso messaggio a Netanyahu: “Proprio perché insieme ti abbiamo difeso, ora ti chiediamo di muoverci insieme”. In altri termini: ti offriamo la condanna diplomatica dell'Iran in cambio della rinuncia ad una tua guerra contro l'Iran.

Questa complessa dialettica in corso richiama le contraddizioni di fondo dell'imperialismo USA e la crisi della sua egemonia su scala mondiale. Tutta la politica USA, a partire dal 2008, è strategicamente mirata al contrasto dell'imperialismo cinese, e di riflesso del suo alleato russo. Gli accordi di Abramo nel 2020 fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, servivano agli USA per cercare di “pacificare” la regione (sulla pelle dei palestinesi) dentro un nuovo equilibrio e architettura diplomatica, che consentisse loro di volgersi verso il Pacifico, concentrando su quel versante le proprie forze. Ma prima la crisi ucraina, poi la crisi di Gaza, hanno richiamato l'imperialismo USA ai propri doveri di potenza imperialista dominante su scacchieri imprevisti. Un ruolo dominante, tuttavia, ben più fragile che in passato. Tanto più in Medio Oriente.

L'imperialismo russo è tornato in gioco in Medio Oriente grazie alla guerra siriana col sostegno determinante ad Assad. L'imperialismo cinese ha officiato la distensione tra Arabia Saudita ed Iran, rompendo l'isolamento di quest'ultimo ed entrando nella partita regionale. La Turchia gioca il ruolo di potenza regionale autonoma in funzione di un proprio disegno neoottomano, al punto da sostenere Hamas e negare agli USA ogni possibile uso del proprio spazio aereo per una guerra eventuale contro l'Iran. La guerra di Israele a Gaza, con la sua gestione in proprio, più volte indifferente alle preoccupazioni americane, ha misurato e aggravato a sua volta la crisi di egemonia USA nella regione, buttando all'aria la tela di Abramo, e favorendo il libero gioco di tutti gli imperialismi e potenze rivali.

In questo quadro, l'imperialismo USA non vuole oggi la guerra dispiegata contro l'Iran. Ha bisogno di recuperare il bandolo di un'iniziativa politica in Medio Oriente, non di una guerra fuori controllo che potrebbe tracimare in un conflitto mondiale. Parallelamente, i fatti internazionali dimostrano che non tutto si svolge secondo i calcoli e la volontà degli USA, come vorrebbero tante rappresentazioni da operetta. Da qui le incognite e i pericoli obiettivi.

Di certo l'intera piega degli avvenimenti mondiali dimostra la crisi dell'ordine imperialistico nel mondo.
L'egemonia USA è apertamente in crisi, e al tempo stesso non si delinea una egemonia alternativa. L'imperialismo mondiale è privo di un baricentro, dentro una competizione tra vecchie e nuove potenze imperialiste per la spartizione del mondo. Ciò che determina il moltiplicarsi degli attori, su scala mondiale e regionale, con effetti e risultanti imprevedibili.
Nessuna potenza imperialista vuole oggi la terza grande guerra. Ma la corsa alle armi di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è di fatto, nella prospettiva storica, una corsa verso la guerra e la sua preparazione. Solo una rivoluzione socialista, che saldi le ragioni della classe operaia con le ragioni di tutti i popoli oppressi, può scongiurare questa prospettiva tragica per l'umanità.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ucraina. Dove va la guerra

 


La corsa alle armi degli imperialismi in Europa e la piega della guerra. La crisi del fronte ucraino. Il posizionamento dei marxisti rivoluzionari

12 Aprile 2024

English translation

Rullano i tamburi di guerra, ma anche letture improvvisate. È bene attenersi al principio di realtà. Il metodo del marxismo.


LA CORSA ALLE ARMI DI TUTTI I POLI IMPERIALISTI. ANCHE NELL'UNIONE EUROPEA

La corsa agli armamenti da parte di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è in pieno svolgimento ed è di ampia portata. Se l'imperialismo russo si è strutturato come economia di guerra, se l'imperialismo cinese incrementa in misura esponenziale i propri investimenti militari, altrettanto fanno gli imperialismi NATO. Inclusi gli imperialismi europei.
Nel 2021 gli stati europei spendevano collettivamente 184 miliardi annui per la Difesa, nel 2024 arriveranno a 350 miliardi. Un aumento del 90% in tre anni. Sommando i paesi della UE alla Gran Bretagna, la loro spesa annua complessiva in investimenti militari è quattro volte superiore alla spesa militare della Russia, e supera di 50 miliardi la spesa militare della Cina.
La guerra in Ucraina ha sicuramente costituito un fattore dirompente in questa espansione degli investimenti militari in Europa. Al tempo stesso, tale espansione è enormemente superiore per dimensioni e tasso di crescita agli aiuti militari all'Ucraina (nella realtà sempre più centellinati).

Gli imperialismi NATO si armano non “per l'Ucraina” ma in previsione di possibili grandi guerre del futuro, in Europa e sul Pacifico, in contrapposizione alla Cina e al polo russo-cinese. La corsa alle armi è in questo senso, in una prospettiva storica, la corsa verso la guerra: lungo la rotta di collisione tra le potenze vecchie e nuove per la spartizione del mondo. La contrapposizione alla guerra è allora innanzitutto la contrapposizione all'imperialismo, a tutti gli imperialismi, a tutte le loro guerre d'invasione. Il che implica la difesa di tutti i popoli e le nazioni invase dagli imperialismi, indipendentemente dai loro governi e direzioni.

chtCentrale da ogni versante è la prospettiva del rovesciamento rivoluzionario dell'imperialismo stesso: l'unica vera soluzione di pace, durevole e giusta, su scala globale. Se vuoi la pace prepara la guerra, gridano in coro le classi dirigenti imperialiste, a tutte le latitudini del mondo, oggi anche in Europa. Se vuoi la pace prepara la rivoluzione, diceva Karl Liebknecht un secolo fa. È la nostra impostazione generale, classista e internazionalista, contrapposta ad ogni borghesia, estranea ad ogni illusione riformista e pacifista.

Questo quadro generale di riferimento non rimuove l'esigenza di una lettura specifica di ogni dinamica di guerra, nella sua concretezza e nelle sue contraddizioni. Così è per la guerra in Ucraina. Abbiamo prodotto in questi due anni come PCL e come Opposizione Trotskista Internazionale (OTI) molto materiale sulla guerra. Facciamo ora il punto sulla piega degli avvenimenti in corso. Un aggiornamento dell'analisi, la conferma di un metodo e posizionamento.


LA GUERRA IN UCRAINA VOLGE A FAVORE DELLA RUSSIA

Il fronte di guerra in Ucraina sembra volgere a favore della Russia. Le famose sanzioni degli imperialismi NATO, che nelle loro previsioni avrebbero dovuto piegarla, non hanno sortito effetto, se non quello di consolidare il sostegno popolare grande-russo attorno a Putin.
Putin si è rafforzato sul fronte interno. Ha capitalizzato con successo il fallimento della rivolta di Prigozhin, sino alla sua eliminazione. Ha decapitato l'opposizione borghese liberale di Navalny. Ha conosciuto un obiettivo successo elettorale, al di là della natura e dei metodi del regime. Sta sfruttando l'attentato terroristico dell'ISIS per compattare la popolazione nel sostegno alla guerra.
Militarmente dispone di una forza molto superiore all'Ucraina in fatto di uomini, missili, arei, munizioni di artiglieria. Sfrutta il contesto politico internazionale: la guerra in Palestina che distoglie attenzioni e fondi degli USA dal fronte ucraino, l'imminenza delle elezioni americane, la debolezza di Biden, il rafforzamento di Trump. Ed anche la crescente avversione dell'opinione pubblica europea verso gli aiuti militari all'Ucraina, e a maggior ragione verso un aumento dell'impegno militare a suo favore. Tutto lo scenario internazionale sembra volgere a favore di Putin. Incluso il rafforzamento delle destre sovraniste in Europa.

Gli imperialismi UE non sembrano oggi in grado di sostituire gli USA nel sostegno militare all'Ucraina. Né economicamente né politicamente, e neppure militarmente. Il grande salto di investimenti militari in Europa non ha ancora conosciuto una traduzione tempestiva e corrispondente in termini materiali. Manca un complesso industriale-militare capace di rimpiazzare quello americano. Le diverse industrie belliche nazionali competono l'una con l'altra, con diciassette sistemi d'arma diversi.
Si moltiplicano inoltre le contraddizioni fra i diversi stati nazionali imperialisti. La principale potenza militare europea, la Francia, ha alluso con Macron allo scenario di un possibile intervento diretto di truppe francesi o NATO in Ucraina. Ma è una sparata a salve. Tutti gli esperti militari concordano nel ritenere che la Francia non reggerebbe neppure una settimana di guerra vera sul campo, per l'assenza di un supporto militare adeguato. Perché Macron allora è uscito con questa allusione? Per un insieme di ragioni: sottolineare che la Francia è la principale potenza militare in UE, e non la Germania (nonostante i 100 miliardi di investimento militare stanziati dal governo tedesco); che è la Francia, quale principale potenza militare europea, ad essere titolata a guidare in futuro un eventuale negoziato di pace in Europa, e non la Germania. Forse si è trattato anche un tentativo di minaccia deterrente (velleitaria) nei confronti della Russia (del tipo: “non pensate di arrivare a Kiev, perché altrimenti...”, ecc).

In ogni caso, con la sua uscita, Macron ha indirettamente contribuito a spiegare a tutti la differenza di fondo tra un intervento militare diretto e un sostegno militare esterno. La NATO e i suoi imperialismi portanti si sono affrettati a dichiarare che non vogliono entrare direttamente in guerra contro la Russia. Lo stesso governo francese ha ripiegato.
Il punto è che mentre l'intervento diretto è una minaccia a salve, il sostegno esterno è sempre più debole. Questo è un problema oggettivo per il governo ucraino.


LA CRISI DEL FRONTE UCRAINO

Gli aiuti militari che gli imperialismi occidentali hanno inviato all'Ucraina si sono rivelati assai più modesti nella realtà che nella propaganda: una controffensiva fallita per assenza di copertura aerea, assenza cronica di munizioni, mancanza di sistemi Patriot per proteggere le città dai missili ipersonici russi... L'avanzata russa sul fronte di guerra è (anche) la risultante di questo.
Nel mentre si complica il fronte politico interno all'Ucraina. Il governo borghese di Zelensky ha evitato le elezioni ma non può evitare la demotivazione legata agli insuccessi. Il fallimento della controffensiva è stato un boomerang. Il disincanto della popolazione accresce le difficoltà di reclutamento. Il reclutamento forzato aumenta lo scollamento interno.

Zelensky ha dovuto rinunciare al reclutamento annunciato di 500000 uomini, limitandosi ad abbassare da 27 a 25 anni l'età della coscrizione. Ma non sa su quali numeri reali potrà contare. Intanto le contraddizioni interne all'apparato militare e amministrativo si allargano. Il Presidente ucraino cerca di aggirare le difficoltà prendendo tempo, massimizzando le pressioni su USA, NATO, UE per ottenere nuovi aiuti, promuovendo continui cambi ai vertici delle forze armate, centralizzando il comando nelle proprie mani, cercando di moltiplicare gli interventi militari ucraini in territorio russo attraverso le imprese spettacolari dei droni.

Sinora l'unico colpo riuscito riguarda l'intervento sulla marina russa nel Mar Nero, e il bombardamento di una serie di raffinerie in Russia (nonostante la raccomandazione contraria degli USA). Ma l'effetto materiale è inevitabilmente modesto. E l'effetto propagandistico sul piano interno è effimero. Mentre gli attacchi alla popolazione civile russa, per quanto limitati alla frontiera, offrono nuovi argomenti allo sciovinismo imperialistico di Putin, che addirittura cerca di attribuire all'Ucraina la responsabilità dell'attentato terroristico al Crocus. Una attribuzione grottesca, falsa e cinica, che ha trovato sponda in Italia in qualche ambiente vicino al Fatto Quotidiano (come nel caso di Pino Arlacchi). Ma una attribuzione che in Russia fa leva sui riflessi condizionati pavloviani del clima di guerra. Per l'Ucraina è un ulteriore problema.


I POSSIBILI SCENARI DELLA GUERRA

Non facciamo previsioni militari ma valutazioni politiche. Putin cercherà probabilmente di simulare disponibilità negoziali per accrescere le difficoltà degli imperialismi NATO sul fronte della loro opinione pubblica. Ma non ha oggi la necessità di trattare, essendo all'offensiva sul fronte militare. Né ha l'interesse a farlo sino alle elezioni di novembre negli USA, dove spera che una eventuale (probabile?) vittoria di Trump possa offrirgli altre carte da giocare.
Putin proseguirà dunque congiuntamente l'offensiva militare e la manovra diplomatica. L'obiettivo militare è riconquistare Charkiv a nord e puntare ad Odessa nel sud, la cui conquista sarebbe fondamentale per chiudere all'Ucraina ogni sbocco sul mare, precipitare la sua crisi interna, poter esibire un trofeo di grande prestigio all'opinione pubblica russa. Medvedev per parte sua continua a ribadire pubblicamente che l'obiettivo di fondo della Russia resta Kiev, perché il popolo ucraino come entità distinta non può esistere. Di certo le ragioni imperiali della guerra russa sono ribadite a ogni passo. Chi parla di guerra per procura della NATO rimuove le ragioni dichiarate dell'imperialismo russo già al piede di partenza dell'invasione.

È possibile un crollo del fronte militare ucraino? È possibile. In assenza di mezzi, uomini, munizioni, Zelensky può essere costretto ad arretrare la linea di difesa. Nei fatti, la gestione della guerra da parte della borghesia ucraina e del suo governo volge al peggio. Ha puntato tutto solo sull'aiuto degli imperialismi NATO, col risultato di trovarsi scoperto proprio su quel versante. L'aiuto non solo non sarà incrementato, ma sarà sempre più problematico. Il Congresso USA ha congelato i fondi. La proposta di 100 miliardi in cinque anni ventilati da Stoltenberg (NATO) si trova già contestata al piede di partenza da diversi paesi. L'uso dei fondi russi depositati in Occidente si scontra con gli interessi del capitale finanziario e le regole del suo casinò.

Le stesse promesse politiche all'Ucraina segnano il passo. La promessa dell'ingresso dell'Ucraina nella NATO deve attendere la fine della guerra, perché altrimenti la NATO sarebbe vincolata a un intervento diretto che non è nei suoi desideri. L'ingresso dell'Ucraina nella UE cammina su tempi lunghi, ed è osteggiato per ragioni finanziarie dagli stessi paesi alleati (Polonia) che temono di perdere i sussidi agricoli. Diversi imperialismi UE stringono accordi bilaterali con l'Ucraina (generalmente decennali) a futura memoria, ma tutti perciò stesso riguardano il dopoguerra e la spartizione del mercato della ricostruzione più che il conflitto in corso, rivelando l'assenza di una linea UE dentro la concorrenza spietata tra i suoi imperialismi nazionali.


IL PUGNO DI MOSCHE DI ZELENSKY. LE IPOTESI DI “PACE PER PROCURA” TRA IMPERIALISMI

La linea di Zelensky si trova in mano un pugno di mosche. Nello sforzo di garantirsi il sostegno dei capitalisti ucraini, Zelensky ha moltiplicato le misure a loro favore riducendo loro le tasse, liberalizzando i licenziamenti, comprimendo i diritti sindacali, moltiplicando svendite e privatizzazioni a vantaggio dei capitali occidentali. Ma così ha semplicemente demotivato le energie difensive della popolazione ucraina, quelle che all'inizio della guerra si erano espresse nell'arruolamento di centinaia di migliaia di volontari per difendere il paese dall'invasione e ora sono largamente rifluite o depresse. Una guerra di liberazione nazionale sotto la guida della borghesia ucraina ha rivelato inevitabilmente tutte le proprie debolezze. A due anni dall'invasione russa e dalla vittoriosa difesa di Kiev contro la colonna di 60 chilometri di carri armati russi, la linea Zelensky mostra la corda. Un'opposizione di classe in Ucraina dovrebbe contestare la gestione borghese della guerra investendo nella mobilitazione indipendente della classe operaia e della popolazione povera: quella interessata a difendere il proprio lavoro e i propri diritti dagli invasori russi, ma anche dagli oligarchi ucraini, che Zelensky protegge.

Le diplomazie imperialiste stanno cercando dietro le quinte una via d'uscita per sé, non per l'Ucraina. La trama ufficiosa su cui si lavora, dietro le quinte, sembra quella di una tregua fondata sullo scambio: l'Ucraina concede alla Russia i territori conquistati con l'invasione, la NATO offre ospitalità a ciò che resta dell'Ucraina. Un compromesso tra briganti. Una spartizione dell'Ucraina tra imperialismo invasore e imperialismi NATO. Oggi l'operazione di scambio fatica ad aprirsi un varco, ma un'elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti potrebbe ampliare le sue chance. Tanta parte del pacifismo saluterebbe forse questa soluzione come la ritrovata “pace”. Ma sarebbe una pace imperialista. Una pace per procura tra vecchie e nuove potenze.

Può essere che l'Ucraina si trovi in futuro costretta a tale soluzione da un rapporto di forza obiettivamente impari. In ogni guerra sono possibili cedimenti obbligati e dolorosi. Valse persino per i bolscevichi a Brest-Litovsk. Ma ciò non muterebbe la natura imperialista della soluzione siglata: l'imperialismo russo vedrebbe premiata la ragione annessionista della propria guerra; gli imperialismi NATO allargherebbero ulteriormente la propria alleanza in Europa, dopo l'ingresso di Svezia e Finlandia. Una simile pace non potrebbe essere definita diversamente che come pace tra briganti.


IL POSIZIONAMENTO INDIPENDENTE DEI MARXISTI RIVOLUZIONARI

Ricapitoliamo allora il nostro posizionamento, da marxisti rivoluzionari, verso la guerra in Ucraina.

1) Abbiamo difeso e difendiamo l'Ucraina e il suo diritto di resistenza dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo, che era ed è anche il diritto ad usare a questo scopo gli aiuti militari (interessati) degli imperialismi NATO. La storia delle resistenze dei popoli oppressi ha mostrato un'infinità di volte il loro utilizzo a proprio vantaggio delle contraddizioni imperialiste. La resistenza irlandese alla Gran Bretagna usò l'appoggio tedesco, la resistenza etiope all'Italia usò l'appoggio britannico, la resistenza curda all'ISIS ha usato recentemente l'appoggio americano... Tutti gli appoggi erano interessati. Ma il loro uso è stato legittimo. Lo stesso vale per l'Ucraina.

2) La nostra difesa dell'Ucraina dalla guerra d'invasione russa non significa appoggio politico a Zelensky. Al contrario. Il governo borghese di Zelensky è contro i lavoratori a vantaggio degli oligarchi e degli imperialismi occidentali. La stessa gestione borghese della guerra ha contribuito ad accrescere le difficoltà della resistenza. Un'opposizione di classe in Ucraina deve battersi contro il governo Zelensky per misure anticapitaliste (esproprio dei capitalisti, cancellazione del debito verso il capitale finanziario, armamento operaio e popolare) e per una alternativa di governo (un governo dei lavoratori). È la lotta per una direzione di classe alternativa della resistenza all'invasione russa. Per una soluzione socialista della crisi ucraina.

3) Siamo contrari a ogni escalation interimperialista della guerra, a ogni invio di truppe NATO in Ucraina, a ogni rafforzamento e allargamento della NATO, a ogni incremento di spese militari degli imperialismi di casa nostra. Per questa stessa ragione non abbiamo rivendicato l'invio di armi all'Ucraina. L'Ucraina ha il diritto ad usarle per difendersi dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo, noi abbiamo il dovere di mettere in guardia (anche) i lavoratori ucraini dagli interessi predatori degli imperialismi NATO. A maggior ragione, se la guerra si trasformasse in uno scontro diretto tra la Russia e gli imperialismi NATO, con l'invio di truppe NATO in Ucraina (scenario ad oggi improbabile), la nostra posizione cambierebbe in direzione di un disfattismo bilaterale su entrambi i fronti.

4) La nostra soluzione di giusta pace ha rivendicato, sin dall'inizio della guerra, il ritiro delle truppe d'invasione russa dai territori annessi dopo il febbraio 2022, il diritto di libera autodeterminazione delle popolazioni del Donbass (che difendemmo dopo il 2014 dal governo reazionario ucraino post-Maidan), il riconoscimento dell'appartenenza della Crimea alla Russia (in quanto la sua popolazione è russa), la neutralità dell'Ucraina rispetto ai poli imperialisti. È una soluzione oggi distante dai rapporti di forza sul campo, e dai progetti dei principali attori. Ma è l'unica soluzione rispettosa dei diritti dei popoli. Altre soluzioni di pace possono rivelarsi, a certe condizioni, inevitabili. Ma sarebbero soluzioni imperialiste, patteggiate da predoni.

In conclusione. Su ogni versante e in ogni piega della guerra, il posizionamento dei marxisti rivoluzionari muove sempre da un'angolazione di classe, anticapitalista, internazionalista. È ciò che ci distingue dai campisti, dai pacifisti, dai riformisti, dai centristi di ogni declinazione ed estrazione. Ne siamo orgogliosi.

Partito Comunista dei Lavoratori